PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI XXIII - FAR BENE IL PAPA

INTRODUZIONE

Henri Daniel-Rops, dopo gli incontri francesi e veneziani, rivide Papa Giovanni, in Vaticano, il 1° maggio 1959. Si trovò davanti lo stesso uomo che un anno prima aveva incontrato a Venezia e, nello stesso tempo, un uomo già in molte cose diverso. Così descrive l'incontro: «È il 1° maggio. Roma, rosa e bionda, ha un'aria di festa. Nell'istante in cui il Maestro di Camera apre l'alto battente imbottito di rosso, Giovanni XXIII si avvicina; letteralmente, le braccia aperte, sulle labbra il meraviglioso sorriso di sempre. Impossibile inginocchiarsi, o appena prosternarsi per baciare l'anello; e ci si trova già seduti sul ligneo mobiliere dorato che occupa tutto il fondo dello studio-biblioteca. E la conversazione comincia, o piuttosto un lungo monologo, che interrompono solamente, di tanto in tanto, le risposte a precise domande. Il tono non è cambiato.
«Il Noi protocollare cede talvolta il posto all'io che usava a Parigi e a Venezia. Ed è sempre la stessa spontaneità, la stessa semplicità. L'impressione di prolungare in tutto direttamente il passato è così forte che occorre quasi fare uno sforzo per ricordarsi che si è di fronte al Vicario di Cristo sulla terra».
«E nondimeno qualcosa è in lui cambiato. Fisicamente forse è un po' dimagrito. Ma non si tratta solo di questo. Il suo viso s'è ancor più spiritualizzato. Ha sui tratti una luce che forse, prima, non gli si era mai vista così. Un prelato della Segreteria di Stato farà la stessa osservazione: "Non è più il Nunzio, non è più il cardinale patriarca, ma è veramente il Padre comune che si ha davanti a sé. Il cambiamento sarebbe forse difficile da analizzare, ma è perfettamente sensibile. La conversazione, nondimeno, si svolge con lo stesso ritmo che a Parigi e a Venezia. Aneddoti, ricordi, domande su tali o tal'altri che conobbe durante la nunziatura, rievocazione dei suoi viaggi in Francia Alludendosi alle sue ultime parole pronunziate a Venezia, sorride e raccomanda le impressioni del momento che il conclave lo elesse: "Ho trascorso tutta la notte in preghiera; era pesante, sapete, tanto pesante. Ma il Signore lo voleva. Vi ricordate la parola del profeta Geremia: Tu mi hai vinto, mio Dio, tu sei stato il più forte, e io mi sono sottomesso? Bisogna essere sempre pronti ad obbedire alla volontà del buon Dio".
«Ma, d'un subito, è il Concilio che diventa il soggetto del monologo. Non sono trascorsi più di tre mesi che ne ha annunziato la convocazione: visibilmente è questo il primo soggetto delle sue preoccupazioni. Racconta come gli venne l'ispirazione, come se ne confidò con mons. Tardini, quali reazioni temeva e quale gioia ne risentì a trovarlo tanto d'accordo. Gli scopi del Concilio sono indicati con precisione: "Non si tratterà, questa volta, di proclamare dogmi. Ma occorre che la Chiesa si mostri aperta, generosa, che gli uomini del mondo intero sappiano che essa è vigilante per tutti i loro problemi e per tutte le loro inquietudini. Noi vogliamo soprattutto che il Concilio sia un atto di bontà"».
«E si pensa alla parola ascoltata a Venezia, a quella che è stata citata a Roma: "Voglio essere buono, con tutti, in ogni tempo". L'autista dell'automobile ci dice, nel ripartire: "Sapete come lo chiamano? Il Papa buono"».
Quella di Papa buono era una definizione sincera, dei semplici e della povera gente; nell'aggettivo più consumato dall'uso, il popolo riassumeva la definizione di un uomo da cui si sentiva compreso e amato. Solo più tardi quell'aggettivo finì per significare qualcosa di restrittivo, di generico e genericizzante. Non di rado - perché non dirlo? - fu un aggettivo anche polemico, in chi osò affermare che Papa Giovanni era "buono e basta", cioè soltanto buono, senza altre doti che facessero di lui un Papa secondo i problemi e le necessità del nostro tempo.
Papa Giovanni era effettivamente buono; e intendeva dare ad ogni atto del proprio ministero uno spirito di bontà che fosse evidente a tutti: così, mentre la bontà era in lui una crescita ininterrotta di carità, era per gli altri la tradizione più urgente e spicciola proprio di quella carità.
Gli premeva "far bene il Papa", come aveva fatto bene il prete, il vescovo, il delegato, il nunzio, il patriarca, il cardinale. Il segreto, per la sua rigorosa ascetica, era soltanto quello: mettere molto amore, tutto l'amore possibile nel fare quello che ogni uomo, ogni giorno da capo, generalmente, fa solo per forza.
Il 21 febbraio di quell'anno i cattolici del Vietnam celebravano solennemente il congresso mariano. Nel '59 il Vietnam non era ancora nel caos odierno, sebbene le premesse di tale caos fossero state gettate molto tempo prima, sia per l'insipienza superficiale dei governi occidentali, sia per la crescita e la dilatazione degli elementi sobillatori all'interno del paese. Nel suo radiomessaggio, Papa Giovanni aveva comunque occasione di felicitarsi per i progressi che nella vita cristiana e nell'organizzazione religiosa i quindici milioni di battezzati vietnamiti erano riusciti a compiere.
«Che splendido cammino percorse la vostra nobile patria - egli disse - fin dal suo sorgere, sebbene molto spesso siano insorte difficili circostanze di eventi! In verità, il seme del Vangelo portò una messe copiosa di santi frutti, quantunque i cristiani vietnamiti fossero oppressi da non poche avversità e persecuzioni.»
Intanto continuava il ritmo delle udienze che nel 1959 fu di particolare rilievo non solo per la regolarità che esse assunsero e per le folle sempre crescenti che si videro affluire a quelle pubbliche in san Pietro, ma anche per il significato particolare che molti protagonisti di quegli incontri non potevano non imporre e suggerire. Il 6 maggio Papa Giovanni riceveva Giovanni Gronchi, presidente della Repubblica Italiana. In quell'occasione Papa Giovanni ebbe modo di ripetere, con finezza e calore una specie di professione d'amore per l'Italia che, nelle sue parole, conserva la schiettezza di un pensiero che nasce spontaneamente dal cuore: «Da quando avemmo la più decisa obbedienza della nostra vita, di lasciare la terra natìa per una missione di universalità, che nel corso di quasi trent'anni ci permise di occuparci di problemi vasti e complessi in ordine all'attuazione del regno e della civiltà di Cristo, potemmo spaziare oltre gli orizzonti limitati ai confini di una sola nazione, e renderci conto dall'Oriente all'Occidente, delle condizioni del mondo intero. E fu precisamente questa familiarità più estesa che ci condusse - sugli inizi di quell'obbedienza, nominati che fummo Presidente delle Opere di Cooperazione missionaria in Italia - a meglio conoscere l'Italia intera nelle sue varie ragioni, e più profondamente amarla, ricca come essa ci appare delle benedizioni di Dio».
E concludeva, riaffermando i rispettivi impegni di tutti i capi che hanno autorità e responsabilità sugli uomini: «Ciascuno sulla sua strada, nello sforzo di raggiungere la finalità dei compiti suoi, animato dunque da umiltà e confidenza in Dio che illumina e sorregge con la sua grazia lo sforzo umano riservato ai buoni successi, ed alle più intime consolazioni della vita: diciamo della vita presente e della futura».

LA POLENTA DEI FRATI

Uno degli incontri in cui ritrovò, proprio da Papa, un momento di letizia particolare, e in cui affluirono profondi e teneri ricordi d'infanzia, fu quello che ebbe il 16 aprile 1959 con i superiori delle famiglie francescane, riuniti a celebrare insieme il 750° anniversario dell'approvazione della regola di san Francesco da parte di Onorio III.
Giovanni XXIII era terziario francescano. Quel giorno fu felice di ritrovarsi in famiglia. Colui che è stato definito "il san Francesco del secolo XX" ha sempre respirato nella temperie della povertà, e la sua appartenenza al terzo ordine francescano non è stata una forma generica di omaggio e di simpatia. Lo spirito francescano è stato in Giovanni XXIII lo stile e il respiro di un ministero e di un dialogo, il segno di una consonanza diretta con il Vangelo e con gli uomini nello stesso tempo.
Da buon terziario, il Vescovo di Roma non dimenticava la visione avuta proprio da un Papa, Innocenzo III - e da Giotto immortalata negli affreschi della basilica superiore di Assisi - del piccolo san Francesco che giganteggia gradatamente, fino a diventare un colosso che regge con le sue spalle il Laterano che minaccia di cadere. Il Laterano era la cattedrale di Papa Giovanni e fu proprio nella basilica lateranense che egli volle riuniti i responsabili delle famiglie francescane. Si compiacque che lì avvenisse l'incontro, che lì scaturissero le parole più adatte per conversare insieme a coloro che, nella fraternità della corda serafica erano, oltre che suoi figli, anche suoi fratelli.
«Dalla grande statua di bronzo della piazza immensa, egli (san Francesco) invita a contemplare la magnifica e misteriosa sedes papatis atque patriachalis. Eccolo nel mosaico centrale fulgente in posto d'onore, lui, fra la Madonna e san Pietro, il suo grande figlio sant'Antonio di Padova fra san Giovanni Battista e l'Evangelista. Qua e là, sulle vecchie lapidi, ricompare il suo nome benedetto, e il ricordo degli avvenimenti preclari della sua visita a questo colle santificato e veneratissimo nei secoli, come nella iscrizione di Papa Nicolao, il primo dei cinque Papi francescani. Stasera è il ricordo della sua Regola che ci attrasse quassù.»
Sulla tomba di Pietro, ancora in crisi interiore, san Francesco aveva sostato, durante un pellegrinaggio a Roma, per comprendere quale fosse la sua vocazione e la sua strada. Davanti all'avarizia dei pellegrini anche facoltosi, che lasciavano cadere sulla grata della tomba dell'Apostolo solo gli spiccioli, Francesco aveva fatto la "prova generale" dello sposalizio con "madonna povertà": aveva rovesciato la borsa colma di monete d'oro; quindi aveva cercato di mendicare il pane alla porta della basilica, mescolato a tutti gli altri poveri. Aveva cominciato a capire quello che più tardi gli si farà completamente chiaro nell'incontro e nel bacio al lebbroso.
Papa Giovanni rievocava dunque ricordi di famiglia in ogni senso, rivolgendosi quel giorno ai francescani presenti. «Si direbbe che la figura di Papa Innocenzo III di incomparabile memoria, qui riposante nel suo nobile e magnifico mausoleo, si sia come svegliata dal suo riposo per riconfermarci la realtà del suo sogno, il prodigio della Provvidenza celeste: per cui quella Regola, approvata non senza esitazione in un primo tempo, e poi per divina ispirazione riconosciuta come richiamo di Gesù al suo insegnamento più alto, venne ornata la prima volta da apostolico sigillo».
Né Papa Giovanni si stupiva o scandalizzava, come non pochi fanno, della moltiplicazione delle famiglie francescane. E lo diceva chiaro: «Può destare qualche ammirazione il fatto della moltiplicazione delle famiglie religiose, che sotto lo stesso nome del Poverello d'Assisi presentano variazioni così numerose e talvolta impressionanti di abito, di vita monastica, di forme di apostolato. Ma per chi sa scrutare le intimità del sentimento, del cuore, del pensiero umano; per chi avendo veduto molta parte dell'orbe si rende conto di antiche e di recenti esperienze, e sa precisare e distinguere fra ciò che è principio sacro e Vangelo eterno, e ciò che è mutevolezza di climi, di temperamenti, di contingenze locali: cresce piuttosto lo stupore per questa fedeltà ai punti fondamentali della Regola francescana antica, questo fervore di ritorno alla sua purezza nativa».
Ma i ricordi francescani di Papa Giovanni non erano generici; si legavano all'armonia della stessa vita quotidiana della sua famiglia patriarcale. Lo disse, sempre nello stesso discorso, lui stesso: «Gli occhi nostri per altro sino dall'infanzia furono familiari alla visione più semplice del conventino regolare dei frati minori di Baccanello, che nella distesa campagna lombarda, dove eravamo nati e cresciuti, era la prima costruzione tutta religiosa che incontravamo: chiesa, modesto romitorio, campanile, e, intorno intorno, umili fratelli che si spandevano fra i campi e i modesti casolari per la cerca, diffondendo quell'aria di semplicità tutta ingenua, che rendeva così simpatico san Francesco e i figli suoi... Niente fu mai così dolce e delizioso alla nostra anima, come il tornare a Baccanello, a quella innocenza, a quella mitezza, a quella santa poesia della vita cristiana, maturata nel sacerdozio e nel servizio della santa Chiesa e delle anime».
Nel discorso ufficiale, comunque, Papa Giovanni non poteva abbandonarsi a un ricordo ancor più preciso: quello che riguardava sua madre prima ancora che lui. Marianna Roncalli, infatti, si regolava sempre sulla campanella del conventino di Baccanello, per buttar più la polenta, in attesa dei suoi uomini che sarebbero tornati dai campi. E furono frequentissime le visite che Roncalli fece a Baccanello, nelle soste che era solito fare a Sotto il Monte, reduce dalle sue lunghe peregrinazioni per il mondo.
Suonava alla rustica porta, si metteva a chiacchierare coi frati, accettava un bicchier di vino, e, se era l'ora della colazione, anche una fetta di quella polenta rustica che gli era doppiamente cara, come bergamasco e come povero, e che amava gustare tra i fratelli minori, tra le mura del minuscolo romitorio che per lui rappresentò sempre l'ideale della semplicità e della povertà francescana. La polenta dei frati e la polenta di mamma Marianna non erano un ricordo patetico: restavano per lui come il simbolo della fedeltà degli uomini alla terra e della terra agli uomini. E a Baccanello, lui che pur non fu mai un letterato nel senso decadente del termine, volle andare alla ricerca del «tempo perduto», e rintracciare le linee pure e coraggiose della sua infanzia e della sua adolescenza regalate a Dio per sempre, in piena dedizione di cuore.

DALLA GIUSTIZIA ALLA CARITÀ

Della sua casa, che non doveva essere «estranea» a nessuno continuava intanto a ricevere le persone più disparate per autorità, cultura, condizione sociale. Il 1959 resta davvero una specie d'anno esemplare e simbolico, nell'attività di Papa Giovanni. Sovrani e lavoratori, presidenti di repubbliche e vigili urbani si sono avvicendati accanto al suo umile trono, per ascoltare parola, detta a ciascuno con le sfumature più adatte, per guardare quel suo volto che cominciava già a diffondersi in milioni di riproduzioni ed a significare una novità di cui tutti si andavano ogni giorno rendendo conto con gioia e stupore.
Papa Giovanni «faceva il Papa» con semplicità, prendendo sempre sul serio ciò che gli toccava fare considerando un visitatore unico come considerava una folla di pellegrini, mai schiavo del protocollo sino in fondo, e tuttavia rispettoso anche di quelle forme solenni che, forse, un po' lo divertivano ma che mai violò senza motivo; e quando lo fece fu sempre per arricchirle di un «più» d'umanità e di cortesia che sconcertò felicemente gli interlocutori più diversi. Bastava un inciso nel discorso, un sorriso, un moto del capo, un'allusione degli occhi e il rigido disegno dell'udienza si apriva per lasciar passare un ricordo comune, una domanda inattesa, un silenzio che riconduceva tutti, dall'astratto al concreto, e animava di verità le cose impassibili che facevano cornice.
Se guardava agli uomini e al mondo col sorriso e la cordialità, non ignorava affatto le condizioni tragiche in cui il mondo si trovava. È sempre stato ricco di una specie di penetrazione istintiva, che lo ha portato oltre le apparenze, e non lo ha mai illuso né sugli uomini né sulle situazioni ma gli ha dato, contemporaneamente, una grande carità nello stesso guardare, e la volontà di conoscere solo per amare, non per giudicare. C'è un modo cristiano di guardare, che fa già parte della carità e della sapienza; e Papa Giovanni l'ha avuta in grado altissimo: e le reazioni a quello sguardo, che si traduceva sempre di colpo nelle sfumature delle parole, dicono chiaro che l'interlocutore - singolo o folla sconfinata - si sono sentiti guardati e amati in quello sguardo, al modo dello sguardo di Gesù al giovane ricco del Vangelo: Guardandolo, lo amò.
La condizione drammatica del cristianesimo non è mai stata né negata, né attenuata, né ignorata, da Papa Giovanni. Non pochi lo hanno accusato proprio di questo, come se egli non avesse riaffermato, in modo esplicito, molte volte (come farà ufficialmente all'apertura del Concilio) la sua vocazione nel condurre la Chiesa a usare «la medicina della misericordia». Si leggano queste parole del diario, per togliersi ogni illusione su un Papa Giovanni senza la cognizione del «tragico quotidiano» del cristianesimo: «La mia vita di sacerdote, anzi - come ben suol dirsi a mio onore e confusione - di principe di tutto il sacerdozio di Cristo, in nome suo e per virtù sua, sta innanzi e sotto gli occhi del mio divino Maestro, il gran legislatore. Egli mi guarda, insanguinato, dilacerato, pendente dalla croce. Mi guarda, trafitto il petto, trafitto nelle mani e nei piedi, e m'invita a riguardare sempre a lui. La giustizia lo ha condotto direttamente alla carità; e la carità lo ha immolato. Questa dev'essere la mia sorte».
La giustizia lo condusse davvero alla carità; e questa è stata, per tutto il tempo del suo breve pontificato, la traduzione più evangelica che Papa Giovanni ha operato, e di cui ha dato un altissimo esempio agli uomini. Non dimenticò mai l'utilità delle tribolazioni per chi si dedica al servizio di Dio. Lo ricorda ancora nel diario: «Ripagandomi sopra me stesso, e sulle svariate vicende della mia umile vita, debbo riconoscere che il Signore mi ha dispensato, sin qui, da quelle tribolazioni che rendono, per tante anime, difficile e non gradito il servizio della verità, della giustizia e della carità. Ho attraversato l'età dell'infanzia e della giovinezza senza accorgermi della povertà, senza inquietudini di famiglia, di studi, di contingenze pericolose, come fu ad esempio il servizio militare a vent'anni, e durante la grande guerra, dal 1915 al '21. Piccolo e modesto quale mi riconosco, non ebbi che felici accoglienze nell'ambiente che mi accolse, dai seminari di Bergamo e romano poi, alla mia vita sacerdotale di dieci anni, accanto al mio vescovo e nella mia città natale... Come ho già accennato in queste pagine: se e quando magna mihi tribulatio advenerit, accoglierla bene; e se questa ritarda un poco, continuare la bibita del sangue di Gesù, con quel contorno di piccole o grandi tribolazioni di cui la bontà del Signore la volesse circondare».
Il 27 giugno fu la volta di De Gaulle. La Francia aveva avuto ancora bisogno di lui, e nel frattempo molte cose si erano risolte, molte altre erano state ricostruite. Il maggior problema francese era, in quel momento, la guerra d'Algeria, che comunque avrebbe condotto De Gaulle ad accettare il principio e il fatto dell'indipendenza del paese. Il presidente trovava ora Papa quel Nunzio che gli si era presentato sereno e sconosciuto, in una fredda e lontana mattina del 1945 per le credenziali e il discorso rituale a nome del Corpo Diplomatico. Ambedue avevano camminato verso una crescita delle loro responsabilità, ed ora erano più che mai in grado di valutare il fatto, umanamente prezioso, che alla base del loro incontro, così ufficiale e protocollare, ci fosse una profonda conoscenza reciproca, ed una grande stima.

LA PRIMA ENCICLICA

Il 29 giugno - festa di san Pietro e san Paolo - veniva pubblicata la prima enciclica di Papa Giovanni, quella che comunemente viene detta, per ogni pontificato, l'«enciclica programmatica».
L'enciclica era prima di tutto un richiamo alla verità. Il Papa diceva: «Di tutti i mali che avvelenano, per così dire, gli individui, i popoli e le nazioni, e così spesso turbano l'anima di molti, causa e radice è l'ignoranza della verità».
Unità e pace sono i modi per rendere testimonianza alla verità, sia nella vita privata degli individui che nella necessaria convivenza fra i popoli. «Dal conseguimento della verità, piena, integra, sincera - dice l'enciclica - deve necessariamente scaturire l'unione delle menti, degli animi e delle azioni. Infatti, ogni contrasto e disaccordo trova la sua prima causa nel fatto che la verità o non è conosciuta, o, peggio ancora, quantunque conosciuta, viene impugnata per i vantaggi che spesso si spera ricavare dalle false opinioni, ovvero per quella biasimevole cecità che spinge gli uomini a giustificare i loro vizi e le loro cattive azioni. È dunque necessario che tutti, sia i privati cittadini, sia coloro che hanno in mano le sorti dei popoli, amino sinceramente la verità, se vogliono godere quella concordia e quella pace, dalle quali soltanto può derivare la vera prosperità pubblica e privata. In modo particolare esortiamo a siffatta concordia e pace i supremi reggitori delle nazioni. Posti al di sopra delle contese fra gli stati, noi che abbracciamo tutti i popoli con pari carità e non siamo mossi da nessun intento di dominazione politica e da nessun desiderio di beni terrestri, nel parlare di un argomento così importante, crediamo di poter essere serenamente ascoltati e giudicati dagli uomini di ogni nazione».
Siamo, chiaramente, ad una specie di prefazione alle altre due grandi encicliche che seguiranno fra poco: la Mater et Magistra e la Pacem in terris: il tema della concordia internazionale e della pace è il nodo più vivo delle considerazioni sempre più precise e concrete. «Se si vuole quindi, e chi non dovrebbe volerlo? - dice l'enciclica - ricondurre le umane nazioni sul sentiero della giustizia, è necessario anzitutto richiamare la ragione e l'animo a questi retti princìpi. Se ci diciamo e siamo fratelli, se siamo chiamati ad una medesima sorte nella vita presente e nella futura, com'è mai possibile che alcuno tratti gli altri da avversari e da nemici? Perché invidiare gli altri, suscitare odio e rivolgere armi micidiali contro i fratelli? Abbastanza si è già combattuto fra gli uomini. Troppi giovani nel fiore dell'età hanno versato il loro sangue. Già troppi cimiteri di caduti in guerra esistono, e ci ammoniscono con voce severa a raggiungere una buona volta la concordia, l'unità e una giusta pace. Pensi quindi ognuno non a ciò che divide gli animi, ma a ciò che li può unire nella muta comprensione e nella reciproca stima. Soltanto se si cerca veramente la pace e non la guerra, com'è doveroso, e si tende con comune sforzo sincero alla fraterna concordia fra i popoli, soltanto allora, diciamo, sarà possibile armonizzare gli interessi e comporre facilmente tutte le divergenze. E si potrà così addivenire di comune intesa e con i mezzi opportuni a quella sospirata e concorde unione per cui i diritti del singolo Stato alla libertà, lungi dal venir conculcati da altri, sono invece del tutto posti al sicuro. Coloro infatti che opprimono gli altri e li spogliano della loro libertà, non possono certamente apportare il loro contributo a questa unità... Del resto, se le nazioni non arriveranno a questa unione fraterna, fondata necessariamente sulla giustizia ed alimentata dalla carità, la situazione mondiale rimarrà così assai grave. Gli uomini sensati deplorano perciò giustamente una situazione così incerta, che lascia in dubbio se ci si avvii verso una pace solida e vera, oppure si corra con estrema cecità verso una nuova spaventosa guerra. Con estrema cecità, abbiamo detto; se infatti - Dio non voglia - dovesse scoppiare una nuova guerra, tale è la potenza delle armi mostruose dei nostri giorni, che non rimarrebbe altro, per tutti i popoli - vincitori e vinti - fuorché immensa strage ed universale rovina. Perciò supplichiamo tutti, ma specialmente i reggitori degli Stati, di meditare su ciò attentamente davanti a Dio giudice, e di adoperare coraggiosamente ogni mezzo che possa condurre alla necessaria unione. Questa unità d'intenti che, come abbiamo detto, contribuirà senza dubbio ad accrescere anche la prosperità di tutti i popoli, potrà essere restaurata allora soltanto quando, pacificati gli animi e salvaguardati i diritti di ognuno, risplenderà dovunque la libertà dovuta ai cittadini, alle nazioni, agli Stati, alla Chiesa».
È utile rileggere, in ordine anche cronologico, discorsi ed encicliche di Papa Giovanni, almeno nei passi più significativi: si ha chiara la prova del suo stesso prendere coscienza della maturazione positiva o negativa dei problemi particolari o generali: e si registra in lui come un umile ma sempre più consapevole crescere del senso del suo ministero e della sua responsabilità di fronte alla pace ed alla salvezza di tutti gli uomini. Lo stesso linguaggio - dalla Ad Petri Chatedram alla Pacem in terris - si fa via via più realistico, e perde notevolmente le circonlocuzioni classiche del linguaggio ufficiale, per scendere nella realtà delle cose con asciuttezza di termini e consapevolezza di responsabilità.
Oltre al problema della pace fra i popoli Papa Giovanni, nella prima enciclica, non trascura il problema dell'unità fra i cristiani. Egli si rende sempre più conto - soprattutto dopo aver diffuso a tutto il mondo l'annunzio del Concilio - d'essere stato chiamato alla cattedra di Pietro anche per riaccendere in tutti i credenti la grande speranza e l'impegno che ne consegue.
«Questo meraviglioso spettacolo d'unità che contraddistingue la Chiesa cattolica - è detto nell'enciclica - e che è di esempio luminoso per tutti, le suppliche e preghiere onde ottenere da Dio per tutti la medesima unità possano commuovere e scuotere salutarmente anche l'animo vostro, di voi, diciamo, che siete separati da questa Sede Apostolica. Permettete che con ardente desiderio vi chiamiamo fratelli e figli. Lasciateci nutrire la speranza del vostro ritorno, che coltiviamo con paterno affetto. A voi ci rivolgiamo con la stessa sollecitudine pastorale e con le stesse parole con cui il vescovo di Alessandria, Teofilo, mentre un doloroso scisma lacerava la veste inconsutile della Chiesa, si indirizzava ai suoi fratelli e figli. Imitiamo, carissimi, partecipi tutti di una medesima vocazione celeste, ognuno secondo le proprie possibilità, imitiamo Gesù, guida ed autore della nostra salvezza. Abbracciamo quella unità che eleva l'animo e quella carità che ci congiunge a Dio, e crediamo fermamente nei divini misteri. Fuggite ogni divisione, evitate la discordia, sostenetevi con vicendevole carità, ascoltate la parola di Cristo. Da ciò conosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete l'un l'altro. Noi perciò a tutela dell'unità della Chiesa e ad incremento dell'ovile di Cristo e del suo regno, eleviamo supplici preghiere a Dio benigno, largitore dei celesti beni e di ogni lume, ed esortiamo a pregare con perseveranza anche tutti i nostri fratelli, e figli in Cristo. Il buon esito del futuro Concilio ecumenico, infatti, più che dall'umana attività e diligenza, dipende dalle ardenti preghiere innalzate a gara da tutti. Ad elevare queste suppliche a Dio, noi invitiamo con affetto anche coloro che, pur non essendo di questo ovile, rendono a Dio il dovuto onore e sinceramente cercano di obbedire ai suoi precetti».
L'eco dell'enciclica fu notevole. Tutti vi sentirono una chiarezza spirituale e pastorale assoluta e l'anelito attivo alla pace fra gli uomini e all'unità fra tutti i cristiani. Mentre prendeva sempre più umilmente coscienza di se stesso e del suo «fare il Papa», Giovanni XXIII prendeva coscienza dei problemi più gravi della Chiesa e del mondo, e dei mezzi per poterli affrontare in termini di testimonianza e di solidarietà adeguate.

UN CARDINALE PROFETICO

Il 10 novembre 1959 veniva costituita la gerarchia ecclesiastica nel Burundi e Ruanda. Il 14 dicembre Papa Giovanni indisse un secondo concistoro per la nomina di altri otto cardinali. Il numero del collegio cardinalizio saliva così a ottantatré, cifra mai raggiunta nel passato. Papa Giovanni decise queste cose con la consueta semplicità; per il solo fatto che erano decise queste, venivano abrogate altre. In realtà il suo disegno, a proposito delle proporzioni fra cardinali stranieri e cardinali italiani, non era per nulla polemico e calcolato: gli premeva solo aprire il più possibile il raggio della partecipazione di tutti i popoli, nei porporati che li rappresentavano, alla testimonianza universale della Chiesa ed anche al suo governo nelle supreme decisioni. Papa Giovanni non ignorava d'essere vecchio di anni, anche se giovane di spirito; voleva perciò che la Chiesa, quand'egli fosse venuto a morire, si presentasse all'elezione del successore veramente in un consesso di carattere universale.
Gli otto cardinali nuovi erano: Paolo Marella, Gustavo Testa, suo concittadino ed amico devoto, Luigi Giuseppe Muench, Gregorio Meyer, Arcadio Larraona, Francesco Morano, Guglielmo Teodoro Heard, Agostino Bea.
La grande sorpresa dei concistori di dicembre doveva essere senza dubbio il card. Bea. Dopo la morte di Pio XII, di cui era stato confessore, era rientrato nell'ombra, se si eccettuano le vicende movimentate della sua responsabilità di direttore dell'Istituto Biblico, l'organismo esegetico più avanzato e coraggioso della Chiesa cattolica. Non erano mancate a Bea difficoltà, malintesi, ed anche notevoli umiliazioni. Papa Giovanni volle premiare nello stesso tempo il padre spirituale di un grande pontefice e il promotore degli studi biblici più vigorosi degli ultimi decenni; quegli studi biblici che avrebbero costituito, soprattutto in vista di un Concilio ecumenico, un punto o di ulteriore attrito o di intesa serena con i «fratelli separati» del protestantesimo. Bea è tedesco, viene da contatti e da lunghe esperienze di «pluralismo esegetico», e ciò che difende è sempre in regola sia con la essenza della ortodossia cattolica, sia col rispetto assoluto della scienza critica e dei suoi diritti in ogni campo.
Ma questa porpora, concessa ad un vecchio gesuita tedesco quasi ottantenne, darà sorprese soprattutto nel campo strettamente ecumenico. Sarà Bea, l'anno seguente, a tenere, ad un agape dell'Università Pro Deo, un discorso inatteso ed «esplosivo» sulla libertà religiosa. Discorso che scandalizzerà non poca gente, ma che finirà per essere la prima base su cui, in un secondo tempo, il Concilio baserà la propria dichiarazione sulla libertà religiosa.
Bea, risorto dalle ombre di un confessionale, vedeva lontano, era profeta con serenità e coraggio. Sarà nominato, proprio da Papa Giovanni, a capo del Segretariato per l'Unione fra i Cristiani, il primo organismo conciliare che continuerà a vivere ed operare anche dopo il Concilio e che giustificherà la nascita degli altri due, quello per i non cristiani, affidato da Paolo VI al card. Marella, e quello per i non credenti, affidato al card. König. Bea resterà sempre una prova dell'intuizione e della lungimiranza di Giovanni XXIII. Egli ha voluto concedere la berretta cardinalizia a uomini disparati. Il merito necessario, per lui, non è stato sempre quello che poteva essere evidente a tutti. Per alcuni, a conti fatti, dobbiamo dire che si è trattato di premiare la vita serena, semplice, fedele di tanti figli della Chiesa in figure semplici che li rappresentassero, senza particolari doti di cultura o esperienze di diplomazia o di apostolato ufficiale, nel senato della Chiesa.
Il card. Testa era già stato da Roncalli aiutato ed amato nel seminario di Bergamo. Un giorno aveva promesso, e si era fatto promettere, scherzosamente, che l'uno si sarebbe ricordato dell'altro, appena arrivato in paradiso, e ci avrebbe «messo il cappello», cioè avrebbe tenuto il posto per l'amico. Lo stesso card. Testa ricordava l'episodio, in un confidenziale discorso tenuto a San Pellegrino Terme, dopo la morte di Papa Giovanni.
Come fu generoso Papa Giovanni, altrettanto fu spiritoso, dice, il card. Testa. Lasciò bianco il proprio stemma, e come motto ne scelse uno più che eloquente: Gratia tua. Grazia di chi? si domandarono molti: di Dio o di Papa Giovanni? Chi sa. Ma forse non è irriverente - anzi ha un certo sapore di «fioretti» giovannei, con il debito «fra Ginepro» - pensare che il card. Testa abbia voluto semplicemente, e con un atto di umiltà esemplare attribuire alla bontà di Papa Giovanni, e solo a lui il proprio cappello cardinalizio. Pare, tuttavia, che Papa Giovanni non gradisse il «Gratia tua» e la giudicasse una stranezza. Per lui, la porpora era il segno di una tremenda responsabilità.
«Color di porpora, color di sangue», disse nel discorso rituale ai nuovi otto cardinali: «Più vicino a noi, in duplice titolo, sta il beato cardinale Gregorio Barbarigo, che, posto in faccia a forti contraddizioni così a Bergamo come a Padova, stringendo la mano sul petto diceva: Color di porpora, color di sangue. Questo vuole essere il vostro, diciamo il nostro principale onore: tutto il resto acquista valore da tale conclamato proposito di sacrificio e di buon combattimento spirituale, di immolazione avvivata dalla fedeltà alla Chiesa, per godere della pace e della incrollabile certezza, legata a questa pietra fermissima».
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